Sudafrica, India e Messico: il voto per punire o continuare o sperare

di Alemrico Di Meglio

L’anno elettorale internazionale ha registrato in contemporanea tre consultazioni in Paesi importanti. Sud Africa, India e Messico. Voto punitivo e di svolta in Sud Africa, dove l’Anc che fu di Nelson Mandela ha perso la maggioranza assoluta – e definitivamente la faccia – a trent’anni dall’elezione di Mandiba. Voto di conferma e di continuità per il premier Narendra Modi, invece, quello del miliardo di elettori in India. Voto di speranza, emerso dalle urne allestite con cento milioni di schede in Messico, distribuito su due leader carismatiche: consenso a piene mani riversato sulla vincitrice, di sinistra democratica, ma pure una rispettabile quantità sulla sconfitta, di centrodestra liberale.

In Messico lo scrutinio ha confermato ieri i sondaggi. Donne contro nelle elezioni e per la prima volta una donna capo di Stato. Per capire l’importanza della consultazione bastano gli identikit delle protagoniste, entrambe leader preparate e promotrici di battaglie volte al progresso sociale e di parità di genere in un Paese dove abusi e femminicidi sono all’ordine del giorno. Di famiglia politicamente di sinistra e benestante l’una; invece poverissima l’altra e con un padre-padrone.

Claudia Sheinbaum, 62 anni, ambientalista, già capace sindaco della capitale, è esponente di Morena, il Movimento di rigenerazione nazionale del presidente uscente Manuel Lopez Obrador, detto Amlo.  Sheinbaum è di origine ebrea: un chimico il padre, ashkenazita della Lituania, esperto e commerciante di gioielli con un passato nel Partito comunista; una biologa la madre, sefardita della Bulgaria. Genitori che le hanno permesso studi, viaggi formativi e università anche all’estero. Più che lusinghieri i risultati in ingegneria energetica e cambiamenti climatici.

Un palmares di tutto riguardo anche per Xòchitl Galvez, 61 anni, origini indigene e condizioni familiari disagiate, ma un’ascesa culturale, economica e politica di cui va fiera. Per sopravvivere, da piccola, venditrice – in giro per strade e mercatini rionali – di pizzette che lei stessa preparava, come le vesti che si cuciva e le coperte che lavorava a uncinetto. Studi notevoli ma grazie alle borse di studio che vinceva, fino a divenire ingegnere informatico e successivamente una imprenditrice apprezzata anche per la sua filantropia.

Lo scontro per la presidenza è stato tra due donne con una visione comune dei problemi del Paese e, manco a dirlo, con ricette dissimili. Claudia Sheinbaum impersonifica la continuità, cioè il ruolo guida – sebbene in forma più soft – dello Stato nell’economia e nella vita sociale. Sviluppo sì, ma tenendo conto sia del mercato libero nordamericano; sia dei trenta milioni di messicani migrati negli Usa (cui aggiungere i non–ufficiali in continuo afflusso) e delle loro rimesse; sia dell’enorme e destabilizzante mercato della droga statunitense, che ha favorito in Messico e nell’America latina il narcotraffico – con la sua enorme carica di violenza: regioni intere in mano ai clan e record di omicidi –  e un’economia parallela sempre meno nascosta. Troppo difficile ormai da smantellare per il governo, che punterebbe a contenerlo attraverso nuove e più adeguate regole.

Xòchitl Galvez, politicamente di centrodestra, dall’iniziale influenza trotskista alla maturità di liberale  e moderata. Già senatrice, si presentava avendo alle spalle il Partito d’azione liberale (Pan) e lo storico Partito rivoluzionario istituzionale (Pri) ancora malvisto per la lunghissima e negativa occupazione dello Stato. Galvez è favorevole a combattere strenuamente il narcotraffico. E’ convinta che il Messico può e deba mutare. Lo dimostra la sua vita e quella delle donne – indigeni dei villaggi o abitanti delle periferie urbane – che ha aiutato a migliorare la propria condizione. Potessero cercare un compromesso e trovare una sintesi, il Messico coglierebbe la migliore delle occasioni.

Anche in Islanda battaglia tra donne, tre, per la presidenza. Ma l’esiguità e la maturità pacifica dell’elettorato hanno destato scarsa preoccupazione e poco interesse, nonostante le fosche nubi che si protendono sull’Artico e le sue riserve naturali.

In India un miliardo circa di elettori, votazioni per un mese e mezzo, terza vittoria consecutiva per il Barathiya janaty party. Crescita travolgente per il partito nazional-induista del presidente Narendra Modi che supera di gran lunga, anche grazie  ai suoi alleati minori, il traguardo della maggioranza assoluta di 272 seggi. Le divisioni nell’opposizione e il declino del Congress party della famiglia Ghandi hanno influito non poco ma certo non spiegano del tutto le dimensioni della vittoria del Bjp. Ha contato la leadership ‘decisionista’ di Modi in un Paese-continente, repubblica federale di ben 28 Stati, 7 Territori, 20 lingue, più di 2 mila dialetti, 4 caste e 2 sottocaste… ma unito dalla religione indù (33 milioni gli dei), dalla comune lingua inglese e dall’eredità britannica di istituzioni ancora democratiche. Soprattutto cementato dalla diffidenza verso la minoranza musulmana (un decimo del miliardo e mezzo d’abitanti) e dalla pressione alle sue frontiere dell’islamismo da un lato e, dall’altro, del neo-imperialismo cinese.

Un decisionismo, quello di Modi, che spesso ha esondato dagliargini. Ma s’è accompagnato alla stabilità politica, alla crescita culturale e tecnologica delle nuove generazioni e ai vantaggi del riversamento sull’India di multinazionali e investimenti occidentali che le sanzioni inducevano al progressivo distacco dalla Cina.

Il Sud Africa volta pagina, per la seconda volta. L’Anc – l’African national congress – festeggia, infatti, il trentesimo anniversario della vittoria di Nelson Mandela nel modo più indecoroso. Perde la maggioranza assoluta nelle urne assieme all’egemonia nel Sud Africa multinazionale. E perde definitivamente la faccia.  Era giunto, il Sudafrica, nel modo migliore, cioè attraverso la pacificazione e il Nobel a Mandela e al presidente bianco Frederik W. de Klerk,  poi l’elezione a capo della “nazione arcobaleno” di Mandiba, il padre della nuova patria interetnica. E de Klerk vicepresidente. Nove etnìe nere a fianco di bianchi, meticci e indiani. Era il 1994. Nei trent’anni seguenti il Paese non ha corso il rischio d’essere contagiato dalla peste dell’Africa post-coloniale, cioè la trasformazione dei movimenti di liberazione in cleptocrazie in guerra coi sudditi e con i vicini. Ha, però, visto crescere corruzione, violenza, nepotismo, arricchimenti illeciti, poco rispetto della meritocrazia, cattiva gestione dell’economia, eccessivo  sviluppo demografico, abuso di propaganda a dispetto dell’informazione.  Famigerate negli ultimi anni le lunghe interruzioni di corrente elettrica in un Paese che, a dispetto dell’apartheid, era divenuto il più sviluppato e ricco dell’Africa sub-sahariana. L’ultimo presidente, Cyril Ramaphosa – che ricordo negli anni Ottanta giovane avvocato e sindacalista degli operai delle miniere – divenuto un maturo miliardario con faraonica fattoria che attraversa in sella a preziosi cavalli arabi: scenografia hollywoodiana in un Paese dove la disoccupazione giovanile è a livelli pericolosi. Aveva sostituito a capo dello Stato Jacob Zuma, a sua volta successore di Thabo Mbeki, statista di notevole spessore. Ma Zuma – 5 mogli e 20 figli ufficiali  – era stato costretto alle dimissioni su pressione dall’Anc e dal voto di sfiducia del parlamento. Nel 2021 condannato a più di un anno di carcere. Una grande prova di indipendenza della magistratura allora. E ora il Sud Africa ha dato una grande prova di serietà e di maturità, inaugurando una seconda svolta.