Un libro su Marianna, la contessa che fondò il santuario di Pompei

Nell’immaginario collettivo il Beato Bartolo Longo viene considerato il fondatore del Santuario della Beata Vergine Maria del Santo Rosario di Pompei e anche il principale se non unico artefice della costruzione della Basilica. In realtà non è proprio così. Al fianco dell’avvocato di Latiano, che effettivamente dedicò gran parte della sua vita all’edificazione della Chiesa e alla creazione di tutte le attività di assistenza e di cura che si accompagnano alla pratica religiosa in quel luogo, svolse infatti un’opera determinante, ma a molti ancora sconosciuta, una nobildonna di origini pugliesi, Marianna Farnararo, sposatasi in seconde nozze proprio con Bartolo Longo, e che lavorò con passione e con dedizione al fianco del marito per l’ideazione e la successiva realizzazione di un progetto, la costruzione della Basilica, che avrebbe segnato per sempre il destino di un intero territorio, legandolo indissolubilmente all’affermazione e all’ esercizio del culto cattolico.
Di tutto ciò si scrive in “Contessa carità”, un volumetto che fa parte della collana “Sorsi” edita da Giannini (Napoli). L’Autore del libro, Lino Zaccaria nel ripercorrere la storia della nascita della Basilica di Pompei, nel disegnare con dettagli inediti la vita della contessa Farnararo e nel sottolinearne i meriti che ebbe nella costruzione della Chiesa, trae spunto dai racconti di suo padre che alla nobildonna pugliese era legato da vincoli di parentela e che aveva avuto occasione di incontrarla e frequentarla durante la sua infanzia.
Tra fatti ‘di famiglia’ realmente accaduti, testimonianze dirette e riferimenti ‘storici’ legati alla nascita del progetto Pompei si dipana il racconto, originale e ricco di curiosità inedite, della vita della Farnararo, dalla nascita a Monopoli, in Puglia, fino al trasferimento a Napoli, dal matrimonio con un ricco proprietario terriero, Albenzio De Fusco, con il quale mise al mondo cinque figli e di cui rimase vedova in giovane età, alla completa dedizione alla preghiera e in particolare al culto mariano che ne caratterizzò la seconda parte della vita.
L’Autore nel ripercorrere la vita di Marianna Farnararo sottolinea l’influenza decisiva che sulla nobildonna ebbero le frequentazioni avute con personalità eminenti del mondo cattolico, quali Caterina Volpicelli e Padre Ludovico da Casoria, che furono determinanti nell’affinarne e svilupparne ancor di più il già innato senso religioso fino a sfociare, dopo il matrimonio con Bartolo Longo, nel progetto e nella realizzazione della costruzione del Santuario di Pompei.
Attraverso la lettura del libro di Lino Zaccaria si fa strada l’immagine di una donna alla quale probabilmente non sono stati ancora riconosciuti del tutto i reali meriti avuti nell’affermazione, oltre che dei principi religiosi legati al culto anche dello spirito di solidarietà, della vocazione all’assistenza delle anime e al conforto dei deboli e degli emarginati,  tutti elementi che hanno contribuito a cambiare in maniera sostanziale, rendendola più moderna ed evoluta, la storia della Chiesa e che ancora oggi sono alla base delle molteplici attività che ruotano intorno alla Basilica pompeiana.
Il libro si conclude con la citazione di una richiesta di intervento di Papa Francesco, avanzata da chi vorrebbe che a Marianna Farnararo, attraverso l’istituto della Beatificazione, fosse riconosciuto, così come già avvenuto per Bartolo Longo, il merito di quanto è stato realizzato. E chissà che il Santo Padre, nell’anno del Giubileo che sta per arrivare, non accolga l’accorata richiesta di quanti considerano Marianna Farnararo un esempio luminoso della storia della Chiesa alla quale, assieme alla riconoscenza dei fedeli, spetta sicuramente una maggiore valorizzazione.
Il volume di Lino Zaccaria verrà presentato lunedì alle 18 presso la libreria Raffaello di via Kerbaker. Ne discuteranno con l’autore il giornalista Angelo Cerulo e la scrittrice Eleonora Belfiore. Modererà Tjuna Notarbartolo, letture di Antonio Leccisi.

Liberate piazza degli Artisti. Protestano tutti

di Lino Zaccaria
Correvano gli anni dell’osannata giunta Valenzi (1975-1983), fra gli assessori ve n’era uno particolarmente intraprendente e innovativo. Si chiamava Antonio Scippa e avviò, con la benedizione del sindaco, una campagna, peraltro giustissima, contro la sosta selvaggia. Oggi avrebbe fatto la felicità di Francesco Borrelli. Lastricò la città di paletti e ottenne buoni risultati, con la benedizione di migliaia di cittadini napoletani, adusi al rispetto delle regole. Ma fece di più. Era un creativo. Con lo stesso tipo paletti chiuse la maggior parte delle strade strette e dei vicoli della città (cito solo a mo’ d’esempio, una per tutte, via Gesù e Maria). E creò il caos. Lunghe code, proteste, critiche da buona parte dei mezzi di informazione. Resistette qualche mese e poi fu costretto a fare marcia indietro, ritirò la decisione cervellotica e ridiede respiro al traffico che era impazzito. Ma non fu il primo, nella storia della città a cimentarsi in soluzioni strampalate in tema di circolazione. Qualche anno prima un assessore, suo collega alla Mobilità, altrettanto creativo, Russo da Mariglianella, si era inventato il Rettifilo a senso unico. E Napoli rimase per dieci ore prigioniera della paralisi, con un mega-ingorgo a croce uncinata, avrebbe commentato l’autista del taxi di “Così parlò Bellavista”. Anche lui fu costretto a rimangiarsi quel folle provvedimento dopo sole 24 ore.
A più di cinquant’anni distanza un altro amministratore pubblico, la presidente della Circoscrizione Vomero Clementina Cozzolino, in buona fede perché probabilmente ignora, se non altro per questioni anagrafiche, la cervellotica decisione di Scippa, ci riprova, seppur in un ambito molto più ristretto. Si è accanita su Piazza degli Artisti e, andando contro tutti e contro il buon senso, ha deciso di chiudere lo sblocco della rotonda che prima portava verso via San Gennaro Antignano e via Merliani e costituiva un utile collegamento per quanti volessero raggiungere tutte le strade a ridosso di piazza Vanvitelli e dello stadio Collana. Un paio di transenne bloccano le auto, costrette ore a incasellarsi sulla destra, verso il solo sbocco che è rimasto. Risultato: nelle ore di punta il caos totale, a via Recco, che non è certo un boulevard parigino, ma una strada decisamente stretta, si blocca tutto. Auto strombazzanti, bestemmie degli automobilisti e soprattutto inquinamento a gogò, con i tubi di scarico che sversano ondate di fumi tossici sullo stesso albero e sulle bancarelle di frutta e verdura dei due rivenditori, uno a destra e uno a sinistra, che stanno proprio lì. Una genialata.
Ma perché tutto ciò? Per il motivo, principale, che bisogna preservare quel grande albero monumentale, una fitolacca, piantato improvvidamente sessant’anni fa quasi al centro della piazza, ed ora enormemente cresciuto e debordante fino al punto da costringere a spostare la rotatoria e a mutare il senso di marcia della circolazione delle auto. Adesso lo hanno inglobato in un orrido cordolo che lo farà soffrire più di quanto non soffra già per quella collocazione astrusa.
Chiunque dotato di buon senso, ma credo che a questo punto dovrebbe trattarsi di una decisione che vada gerarchicamente al di sopra della Circoscrizione (Sandagata ci sei?), capirebbe che quell’albero, che peraltro comincia pure a mostrare qualche acciacco, lì proprio non può restare. E non è davvero il caso di fare appello a romantici sentimentalismi o a presunti motivi identitari di quartiere. Puro oscurantismo. Nell’anno del Signore 2024, intelligenza artificiale imperante, il pragmatismo e il bene pubblico dovrebbero avere la meglio sulle emozioni o sulle scelte ideologiche e fumosamente ecologiche. C’è a Napoli un grandissimo polmone di verde con sterminate aree disponibili, il Bosco di Capodimonte. Perché non ridargli linfa vitale espiantandolo e ripiantandolo in un contesto più logico e naturale? Se potesse parlare sarebbe certamente d’accordo, le sue foglie, in parte rinsecchite, tornerebbero splendenti e più verdi di prima. Non soffrirebbe più lì, e non soffrirebbero migliaia di napoletani.
I commercianti, che ovviamente badano anche a “lo loro particulare”, lo hanno capito e mercoledì, insieme ai residenti, si sono dati appuntamento alle 11,30 a piazza degli Artisti, per protestare intanto contro le transenne. Basterà a far tornare la Cozzolino sulle sue assurde decisioni? E basterà a smuovere un po’ di Verdi vari, che in questa circostanza, di fronte al cordolo aguzzino, non hanno profferito verbo? Secondo Europa Verde, infatti, le transenne vanno rimosse, la delibera è sbagliata e non motivata. E hanno ragione. Ma l’albero non darebbe alcun fastidio. Contenti loro.

Barbero è una star. Onore a lui, ma…

Alessandro Barbero, il professor Alessandro Barbero, è ormai una star. Divulgatore di storia straordinario, grazie anche al formidabile traino di trasmissioni televisive, è diventato una specie di divo che non solo buca il piccolo schermo, ma soprattutto impazza sul web con i suoi seguitissimi podcast. Questa notorietà lo ha trasformato in una specie di calamita per tanti giovani, attratti dalle sue innegabili capacità affabulatorie.
La riprova la si è avuta lunedì al San Carlo, riempito da 1700 studenti entusiasti della Federico II, accorsi per ascoltarlo mentre magnificava il profilo del “padrone di casa” e il ruolo che ha svolto, non solo per Napoli, ma per tutta l’Europa e per il mondo occidentale moderno.
Il Medioevo è il suo humus, è uno specialista vero di quel periodo, gli storici e la cultura di tutto il vecchio Continente ce lo invidiano.
Avere un trascinatore che inchioda ragazzi parlando di storia e facendo quindi cultura alta è un ulteriore attestato che arricchisce il già consistente serbatoio di meriti che si accompagnano all’operosità scientifica del professor Barbero.
Tutto ciò detto, c’è però un però. Barbero oltre ad avvincere per le sue dissertazioni sul Medioevo e in genere su qualsiasi periodo storico, è anche il capofila di quei cattedratici “con la puzza sotto il naso” che mal sopportano le incursioni dei non addetti ai lavori nel loro sacro recinto accademico. E nella fattispecie è il capofila di quei sostenitori che appunto ex cathedra, continuano imperterriti a sostenere che sulla caduta del Regno delle Due Sicilie e sugli avvenimenti successivi al 1860 non ci sia proprio nulla da sottoporre a revisione storica.
I Borbone, despoti e tiranni, avevano lasciato, secondo Barbero e compagni, un regno retrogrado, con sudditi schiavizzati, lazzaroni e analfabeti.
Io non so quante ricerche dirette abbia condotto Barbero su questo periodo. So soltanto che i vari Aprile, Del Boca. Guerri, Oliva e Di Fiore hanno trascorso ore, giorni, mesi in archivi e biblioteche a spulciare tra i documenti e a capire. E hanno dimostrato incontrovertibilmente che la retorica vulgata risorgimentale, propinataci a senso unico per più di 150 anni, è zeppa di falsi storici e che Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele non hanno affatto “liberato” il sud dalla “tirannia” di Francesco II.
Il Regno di Napoli era invece uno stato libero e indipendente, ricco e ubertoso, lo hanno invaso e colonizzato in dispregio delle norme internazionali, e lo hanno, loro sì, affamato costringendo milioni di meridionali ad emigrare in paesi lontani. Con i Borbone se ne stavano tranquilli a casa loro.
E i milioni di cittadini che non volevano arrendersi li hanno etichettati come briganti, mentre i vecchi militari dell’esercito borbonico, che non vollero transitare nell’esercito savoiardo, furono incatenati e lasciati morire nelle tenebre di quello Spielberg che era la fortezza di Fenestrelle, in Piemonte. Che è anche la regione di Barbero, naturalmente.
Tutti fatti storici acclarati. Ma per Barbero non è vero nulla. E Fenestrelle è una bufala. Giudicate un po’ voi.
Lino Zaccaria